Io, Elena, inguaribile “malata” di Wanderlust

Wanderlust

Non è così automatico associare i propri sentimenti, spesso contrastanti, alla Wanderlust.

Innanzitutto, va chiarito cosa sia la cosiddetta “sindrome o malattia di Wanderlust”. La parola deriva dal tedesco (non dall’inglese!) Wandern (errare, vagare) e Lust (desiderio). Suppongo che non ci sia nulla di più romantico, artisiticamente parlando, in particolar modo, appunto, il romanticismo tedesco con la sua Sturm un Drang.

Perchè è esattamente questo per si prova: tempesta ed impeto.

E’ un qualcosa che nasce da dentro e che non ti fa mai essere completamente tranquillo e soddisfatto. La senti pizzicare sottopelle nelle giornate più tranquille e, finché non la identifichi, la scambi con la noia. Ma non si tratta di quello, anzi, nulla di più sbagliato. Un malato di Wanderlust non si annoia. E’ ossessionato (si, proprio così) dall’esplorare luoghi nuovi, provare nuove esperienze, fare qualcosa che non ha mai fatto prima. Può essere un viaggio intercontinentale, così come una passeggiata dietro casa. Non contano le distanze, ma le esperienze!

E’ quel qualcosa che ti porta a controllare Skyscanner molto più spesso dei social e che ti fa ogni giorno allungare l’elenco dei luoghi da visitare. Non importa quale per primo, ad un wanderluster basta decollare verso luoghi non ancora esplorati, la meta, talvolta, è secondaria.

E’ quel qualcosa che, negli anni, ti fa rendere conto che non sono i beni materiali ad essere importanti, ma i ricordi, il tempo, le esperienze e le persone. Nulla vale quanto tuffarsi nell’oceano indiano e riemergere cosparsi di plancton luminoso. O svegliarsi in una spiaggia omanita in un sacco a pelo ed avere il privilegio di assistere alla nascita di centinaia di tartarughe marine. O, ancora, correre a piedi nudi nel bel mezzo del deserto, aspettando il tramonto.

Per gli spiriti inquieti come me, non contano il confort ed il lusso. Anzi. E’ l’avventura a farla da padrona. Che sia per un weekend dietro casa, o per un viaggio di cui hai solo un biglietto di andata, è andare che conta. Ed il low budget va a braccetto con la quantità di esperienze economicamente fattibili. Niente progetti definiti nei minimi dettagli, niente organizzazione maniacale. Spesso, si decide di partire in preda ad uno di quei momenti in cui le mura di casa risultano quasi soffocanti. Perchè, in fin dei conti, chi viaggia per ritrovare a migliaia di chilometri le abitudini di casa, non viaggia veramente.

Un wanderluster ama la propria casa, ma non gli basta. Sa che può farci ritorno ogni volta che ne ha bisogno, che è il suo porto sicuro, ma l’altro lato della medaglia è la necessita di uscire di casa il più possibile.

Conta i minuti liberi che ha a disposizione per vedere quanto in là può spingersi in una nuova avventura, con l’obiettivo di viverne il più possibile.

Non si commetta l’errore di pensare in grande. L’avventura in questione potrebbe essere un piatto messicano super piccante, o una ciotola di pad-thai in un nuovo ristorante. Perché chi soffre di wanderlust ha un bisogno cronico di “fare qualcosa di nuovo”. Nel momento stesso in cui è felicemente a casa sul divano, in un pomeriggio piovoso, c’è costantemente quel qualcosa che si agita nel suo cuore. E’ una sensazione di insofferenza verso la quotidianità, che è allo stesso modo confortante e soffocante.

Chi si trova ad aver a che fare con un wanderluster, invece, non ha una vita facile. E’ costantemente sopraffatto dall’inquietudine di chi ne soffre. Sa che la persona in questione sta interiormente battendo i piedi e si sta mordendo la lingua per non ripetere in continuazione “e adesso cosa facciamo? dove andiamo?”. Ma, con il tempo, impara a capire che noi abbiamo fisicamente bisogno del “viaggio” in ogni sua definizione possibile.

Provateci voi a convivere con un cervello che, provata l’ebbrezza del pensiero autonomo, decide di autogestirsi nei momenti meno opportuni. Vi ritrovereste, per esempio, nella situazione (probabilmente anche di una certa rilevanza) in cui dovreste essere presenti, ma vi limitate a sorridere e ad annuire mentre pensate cose del tipo “chissà quanti chilometri ci sono tra Cnosso e Nuova Delhi…”, oppure: “dunque, mettiamo il caso che io salga su un aereo per New York adesso, che ore saranno una volta atterrati? Riuscirei ad arrivare nei pressi di Central Park in tempo per sbafarmi uno dei super hamburger di Burger Joint?”

Non sempre riesco a far notare alla mia materia grigia che ci sono momenti opportuni per decidere che la nuova ossessione sarà da quel momento verificare se lo sciacquone del wc gira effettivamente al contrario nell’emisfero australe o fissarsi su cosa visitare una volta spuntate dalla lista dei luoghi da raggiungere l’isola di Pasqua e le sue teste megalitiche.

Cosi. Tutto il giorno.

Voi siete ancora con un occhio chiuso nel tentativo di centrare al primo colpo la bocca con la tazzina del caffè espresso, io mentalmente ho già prenotato 12 voli aerei, attraversato 3 continenti, 15 fusi orari e devo ancora mettere un piede fuori dal piumone. Non potete immaginare quanto sia lunga la mia lista delle cose da fare, la bucket list! Poi, uno non dovrebbe accusare una certa prepotente e costante stanchezza…

In fin dei conti, è noto che non sia tutta colpa nostra, ma del nostro DNA: pare che sia stato scientificamente individuato il cosiddetto “gene del viaggio”. E chi sono io per rinnegare il mio DNA?